Minoli: «Amadeus un fuoriclasse. Fagnani? Brava, ma 5 puntate sono poche. Il Nove come Berlusconi, sta cambiando le regole tv»

Parla il popolare giornalista e manager: «Giocavo in Serie D, smisi per mia madre»

Giovanni Minoli: «Non andrò in pensione. Amadeus è un fuoriclasse. Il Nove, come Berlusconi, sta cambiando le regole tv»
di Andrea Scarpa
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Domenica 19 Maggio 2024, 01:12 - Ultimo aggiornamento: 15:42

Lo schema è collaudato da anni: ogni volta che sta per cambiare la governance della Rai, Giovanni Minoli manda una pec alla Commissione parlamentare di vigilanza con il suo sterminato curriculum vitae. L'obiettivo è sempre lo stesso: autocandidarsi per entrare nel cda di Viale Mazzini. 

Lei ha fatto la storia della tv di questo Paese, ma sa bene che continueranno a ignorarla: a che gioco sta giocando?
«La mia è una semplice provocazione intellettuale. Un pizzicotto dato per ricordare a certa gente che la competenza e il merito sono importanti. Lo faccio perché il problema numero uno in Italia è questo: quando c'è la politica di mezzo le scelte per selezionare i dirigenti si fanno per fedeltà non per competenza».

Qual è la prima cosa che cambierebbe in Rai?
«Non posso dirglielo. Le cose prima si fanno, poi si spiegano. Sappia che ho le idee chiarissime».
Un po' ci crede al suo ingresso nel cda?
«No.

Però mai dire mai».

Il Nove e il gruppo Warner Discovery stanno cambiando le regole del mercato televisivo: la Rai quanto rischia?
«Moltissimo. Producendo all'esterno il 70-80 per cento di quello che manda in onda, può facilmente diventare una bad company con 12.500 dipendenti, di cui 2000 giornalisti. A cosa serve tutta quella gente?». 

Appunto. Cosa fanno?
«Si inventano percorsi burocratici che rendono la vita impossibile a chi lavora sul serio. In Rai si è praticamente persa l'unica cosa che davvero conta in tv: la centralità del prodotto. La televisione, qualcuno ancora non l'ha messo a fuoco, conta solo per quello che va in onda. Tutto il resto è organizzazione, lavoro d'ufficio, carte».

Che ne pensa della Rai dell'ultimo anno?
«Niente. E rimasta più o meno in piedi con i prodotti che già c'erano, da Linea Verde ad Amadeus, un vero fuoriclasse».

Che ha lasciato l'azienda ed è passato al Nove. Lei per trattenerlo che cosa avrebbe fatto?
«Qualsiasi cosa. Amadeus ha trasformato Affari tuoi nel più grande serial di sociologia e antropologia italiana a cielo aperto».

Addirittura?
«Sì. Ha il merito di raccontare con i pacchi gli italiani veri, con i loro sogni e problemi. E infatti è passato dal 23-24 al 30 di share. Mi piace perché ha la freschezza della curiosità autentica. Amadeus è come un concorrente, non c'è differenza. È uno di loro».

A Laura Carafoli, super responsabile editoriale del gruppo Warner Discovery, cosa dirà prossimamente?
«Non glielo dico. Ma come fa a saperlo che la incontrerò? Quello che stanno facendo, comunque, è interessante, somiglia all'ingresso di Berlusconi in tv e nel calcio, quando cambiò tutte le regole del gioco».

Lei avrebbe mai mandato in onda su Rai3 Nunzia De Girolamo con il suo “Avanti popolo”?
«Mai. E a lei l'ho già detto. Era un talk senza senso. Lei però è una risorsa interessante: è intelligente, bella e non se la tira». 

Lei come si informa in tv?
«Per le news mi fermo solo sul tg di Mentana, è il più bravo di tutti».

Parlando di Rai cosa chiederebbe a Giorgia Meloni?
«Non credo che una come lei si sia messa davvero con la testa a ragionare sulla Rai. Certo, il suo uomo è il dg Giampaolo Rossi, ma per fare la tv come si deve ci vuole una squadra. Ecco, non so quanto abbia riflettuto su questo aspetto. Credo che ci penserà dopo le elezioni». 

Non ha più voglia di fare i suoi famosi Faccia a faccia?
«No, troppi paletti. Mi interessa La storia siamo noi, che nel 2012 a New York vinse il premio History Makers International - considerato l'Oscar dei produttori televisivi - per il miglior progetto di divulgazione al mondo». 

Minoli dirigente avrebbe mai fatto come il direttore generale Mauro Masi, che nel 2010 le regalò i diritti della Storia siamo noi per tre anni, dal 2010 al 2013 ,per un totale di 576 ore di tv?
«Lui pensò di fare bene, quindi va bene così».

Il contenzioso con la Rai per rivendere quei diritti si è concluso?
«Non del tutto». 

Nel 1998 il direttore generale della Rai Pier Luigi Celli aprì ai produttori esterni, mentre nel 2015 il suo omologo Antonio Campo Dall'Orto istituì in azienda la divisione per generi e fasce, eliminando di fatto le reti. Due provvedimenti molto contestati: chi ha fatto peggio?

«Un bel match. Campo Dall'Orto ha fatto una riforma che non sta in piedi da nessuna parte e che si poteva benissimo non adottare. È un modello fallimentare perché la divisione per generi, non per fasce, non esiste in natura. La docufiction, per esempio, chi stabilisce chi deve farla?».

La cosa che le è venuta meglio qual è? 
«Forse allevare tanti professionisti».

Pentito per qualcuno?
«Non tutte le ciambelle vengono con il buco, l'importante è che il cinquantuno per cento sia venuto bene».

Massimo Giletti è uno dei tanti: favorevole al suo ritorno in Rai?
«Sì, va bene». 

Fra loro c'è anche Francesca Fagnani: le piace sempre?
«Sì, certo. Però cinque puntate ogni tanto sono poche e poi le interviste di quel tipo funzionerebbero meglio se non fossero montate. Io non lo facevo: la tensione psicologica che si creava fra intervistare e intervistato era fondamentale. Chi veniva sapeva che avrei messo tutto in onda. Quando De Mita disse che Agnelli era un mercante con poche idee e tanti interessi particolari, poi fece di di tutto perché io lo tagliassi. Fui irremovibile».

Nel 1989 da socialista intervistò Craxi dicendogli che in politica aveva strizzato l'occhio a tutti: lei a chi ha fatto altrettanto?
«A due due donne come Elvira Sellerio e Letizia Moratti, le persone che più mi hanno aiutato. La prima quando era nel cda mi nominò direttore di Rai2, la seconda mi aiutò a creare la struttura speciale Format. Tutto il resto è leggenda. Chiacchiere».

Sta dicendo che Craxi e suo suocero Ettore Bernabei, storico dg della Rai dal 1961 al 1974, anno in cui fu assunto, non l'aiutarono? 
«Mai. Quando Craxi diventò Craxi, io ero capostruttura. E quando Craxi andò via, io ero sempre al mio posto di capostruttura. Detto questo, stimavo e stimo Bettino: è stato un grande politico del Novecento».

Con Luca Josi, segretario del Movimento Giovanile Socialista dal 1991 al 1994, vicino a Craxi fino all'ultimo, nel 2011 creaste il romanzo popolare “Agrodolce”, che doveva essere “Un posto al sole” in chiave siciliana, per il quale lei ottenne 20 milioni di euro dalla Comunità Europea. La prima stagione andò benino, ma poi Josi all'improvviso chiuse il progetto: in che rapporti siete?
«Non buoni. La Rai, affidando alla sua Einstein Fiction la produzione esecutiva, scelse molto male».

Josi con Mina e suo figlio Massimiliano Pani stanno lavorando per curare la direzione artistica di Sanremo: come vede il progetto? 
«Malissimo. Non mi sembra un'idea geniale». 

Il primo grazie a chi lo deve?
«A mia moglie Matilde e a mia figlia Giulia, grande costruttrice di dialogo e amore che ha fatto bene a tutti noi. E ovviamente ai miei genitori». 

Suo padre morì in un incidente d'auto nel 1972, tragedia che dopo poco colpì anche sua madre, giusto?
«Sì. Un destino tremendo. Io a mio padre parlo tutti i giorni. In quella macchina morì lui, la mia guida spirituale, il mio migliore amico, il mio confidente, il mio consigliere...». 

Ora lo sfizio da togliersi qual è?
«Trasmettere qualcosa di positivo ai miei nipoti».

Hanno cominciato a farle domande imbarazzanti?
«No. Ma non ho paura delle domande».

Allora la cosa più illegale che ha fatto qual è?
«Illegale? Oddio...».

Minoli risponde a tutto.

«Ci devo pensare. Lasciamo stare».

Va bene. Se non fosse illegale che cosa farebbe?
«Mi piacerebbe fare una rapina in banca. Tipo La casa di carta».

La cazzata della vita?
«Non aver insistito fino alla morte per giocare a pallone, la mia vera passione. Arrivai fino alla serie D. Il Milan mi voleva comprare, andai anche ad Asiago da Nereo Rocco a fare i provini. Poi mia madre, avevo 15 anni, mi fece smettere. Per lei il calcio non era una cosa seria». 

Da socialista morirà democristiano o nulla è cambiato?
«Io sono sempre stato un uomo libero, di centrosinistra, e come tale morirò».

E quando sarà, fra cent'anni, che fine farà? 
«Mi sono comportato abbastanza bene, non credo andrà male».

Fra i sette peccati capitali quali ha più frequentato?
«Non me li ricordo più, ma di sicuro li ho frequentati tutti».

Andrà mai ai giardinetti con il cane?
«Mai. Voglio stare sul pezzo finché ce n'è. Vorrei morire vivo». 

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